Era ancora il tempo in cui per andare da Sansepolcro a Città di Castello bisognava passare una frontiera. E non era neanche il maggiore dei problemi, visto che lungo la strada poteva anche capitare di fare uno sfortunato incontro con qualche banda di briganti. Cominciò fra queste due cittadine una saga familiar-industriale lunga quasi due secoli. Si sarebbe estesa presto, prima coinvolgendo le zone contigue, poi, addirittura, attraverso il mondo, superando oceani e toccando nuovi continenti. Erano abbastanza avanti con gli anni (lui, a 58 anni, per allora era addirittura vecchio) Giovan Battista Buitoni e la moglie Giulia Boninsegni quando decisero di inventarsi un nuovo mestiere, lasciando progressivamente i precedenti, di barbiere e di ricamatrice.
Sansepolcrini entrambi, scoprirono che in pieno centro cittadino, in via della Fiorenzuola, c’era un pastaio che aveva deciso di abbandonare l’attività e metteva in affitto il laboratorio. Il 15 luglio 1828 firmarono il contratto con Antonio Betti e si buttarono nell’avventura, ipotecando gran parte dei loro averi. Non erano degli sconsiderati, però, e si preoccuparono di far arrivare da Genova un tecnico per regolare il funzionamento dell’essiccatrice. I primi prodotti erano presentati così in un catalogo dei primordi: «vermicelli color paglierino, delicati, sodi al dente dopo la cottura». Infatti, Giovanni Battista entrò nella corporazione dei “vermicellai”. Era stata una delle ultime a nascere: loro specifica abilità era prevedere che tempo avrebbe fatto regolando così l’umidità degli ambienti dove la pasta era lasciata a seccare.
Nel contratto figurava anche un locale affacciato sulla piazza del Borgo. Venne subito usato come bottega, con il grande banco in noce, i lunghi scaffali, le stadere appese al soffitto e, in fondo, due torchi a vite per la trafilatura della pasta. In realtà, ci si vendeva di tutto (a credito come usava, segnando le spese sui quaderni dalla copertina nera e talvolta andando incontro a spinosi problemi per recuperare il dovuto): burro e candele, spezie, farina, petrolio e anche qualcosa che negli antichi inventari figura come “caviale”. Non è questa, presumibilmente, la merce più richiesta, comunque gli affari vanno bene e, in capo a due anni, i coniugi sono già in grado di riscattare i macchinari affittati dal Betti. Poco prima della scomparsa, nel 1841, Giovanni Battista suggerisce al figlio Giovanni di aprire un secondo pastificio a Città di Castello. La distanza è di qualche chilometro, ma cambia addirittura lo Stato. L’Italia, sia pure per pochi anni, non è ancora unita: mentre Sansepolcro fa parte del Granducato di Toscana, il nuovo stabilimento si troverebbe nello Stato Pontificio, e, soprattutto, in una zona priva di concorrenza. Ci vorranno dieci anni per concludere l’affare e lì, a curare la ditta, andrà Giuseppe, il terzogenito della seconda generazione. A Sansepolcro, intanto, le proprietà Buitoni sono cresciute, con nuove botteghe e una produzione di pasta che raggiunge i 10 quintali al giorno. Cresce anche l’impegno della famiglia nei confronti della comunità: quando nel 1865 il Comune inaugura un nuovo servizio d’illuminazione con venti lampioni a olio minerale, sono i Buitoni a fornire il combustibile. Del resto, l’azienda ha una particolare attenzione per tutto quel che riguarda l’energia, fondamentale per la produzione. Alla fine del 1880 (un anno prima l’impresa ha cambiato nome, passando da Giovanni Battista Buitoni a Giovanni Buitoni e Fratelli), viene inaugurato un nuovo stabilimento a San Leo e lì Giovanni riesce a installare anche un mulino spinto da un impianto elettrico. In effetti, Sansepolcro è una delle prime città italiane a sfruttare il nuovo tipo di illuminazione urbana. L’8 settembre 1892, in occasione del quarto centenario della morte di Piero della Francesca, si accende così la piazza intitolata all’artista. Quando, nel 1900, concorrono alla creazione di una centrale idroelettrica sul Tevere, a Montedoglio, i Buitoni si possono a buon diritto considerare i re di Sansepolcro. Quello, però, è il periodo in cui si mettono le basi per un impero che andrà molto oltre i confini umbro-toscani.
Piaceva anche a Puccini. Il successo strepitoso arriva grazie a qualcosa che oggi sarebbe guardato con una certa diffidenza. Esecrato, anzi, almeno da una parte dei possibili clienti. Invece, al tempo, divenne alimento fondamentale per milioni di famiglie italiane che vivevano ai confini dell’assoluta povertà, che non potevano permettersi di portare in tavola ogni giorno – né per sé, né, soprattutto, per i loro bambini – le ‘“fettine” di manzo oppure altre vivande ricche di proteine. Un deficit che (almeno in certa misura) quel prodotto era in grado di surrogare. Tant’è vero che, negli azzeccati slogan con cui venne propagandata la “Pastina Buitoni”, fu spesso battezzata “carne vegetale” o, direttamente, “pollo”.
Si trattava del glutine. Anzi, della pasta “iperglutinata”, come ordinava espressamente Giacomo Puccini («4 o 5 chili a lungo taglio o a corto...») in una lettera del 1916 indirizzata al “sig. Buitoni”. Peraltro, elemento fondamentale – sia detto subito, a scanso di equivoci – per fare la pasta come la conosciamo noi italiani (ovvero, la pasta per definizione): in base ai disciplinari oggi in vigore, dentro la migliore, quella di grano tenero tipo 00, deve comparire, in percentuale, per almeno il 7%. La “scoperta” – nel senso di valorizzazione – del glutine, fino ad allora considerato sostanza di scarto, va a merito di Giovanni Buitoni (e segnerà, come abbiamo visto, l’intero mondo della pasta nazionale). Intorno alla metà del secolo, l’idea gli viene leggendo De Frumento, un libro di Jacopo Bartolomei Baccari, bolognese, nato nel 1682, considerato da alcuni il padre della chimica moderna. Lì, accanto a sentenze memorabili - ad esempio: «Cosa siamo, se non ciò che mangiamo» – si descrive come separare il glutine dall’amido, ovvero impastando con acqua la farina di grano e poi spremendo la parte liquida attraverso un telo di lino. Dall’idea si passa al progetto, poi cominciano i lunghi esperimenti. Nell’antico stabilimento gli operai stavano in una vasca a lavorare la farina nell’acqua corrente fino a ottenere il glutine, sotto forma di pallina traslucida. Aggiunto ad un altro impasto, quella è la “pastina” Buitoni, la “carne vegetale”. Una sera dell’ottobre 1883 si tiene in fabbrica la cerimonia del primo assaggio. Pare che il sapore non fosse granché ma, visto quanto il padrone teneva al progetto, gli operai usati come “cavie” badarono bene a non fare troppe smorfie. L’anno seguente arriva il lancio in commercio e, contemporaneamente, la prima pubblicità (sarà la glutinata, infatti, a far d’ora in poi la parte del leone nella comunicazione Buitoni, relegando in secondo piano la piccola “pastina” normale): «…una specialità dietetica, per bambini, malati e convalescenti, da usare al consommé volendo una minestra molto nutriente, leggera e pronta alla cottura». Il trionfo sarà planetario, non senza varianti e perfezionamenti.
La famiglia, intanto, si ramifica. Le vicende sono complesse e, in più, la storia ora si intreccia con quella di un’altra grande azienda perché, nel 1907, Francesco Buitoni è uno dei quattro soci che fondano la Perugina (vedi Sette n. 15, 11 aprile 2014). E anche la parte pubblicitaria (forte e incisiva per entrambe le aziende) sarà spesso in “comarketing”, come si direbbe oggi, come capiterà con l’eccezionale diffusione delle figurine col “Feroce Saladino”, ma anche ricorrendo agli stessi illustratori (il magnifico Seneca, ad esempio) e ad analoghi stili. Nel 1920 nasce la Sapic (Società anonima pastifici Italia centrale). Già dall’inizio della Prima guerra mondiale è stata raggiunta la ragguardevole quota di 3.500 tonnellate di prodotti (oltre alla “pastina”, anche maccheroni, spaghetti, farina lattea, ecc.) ogni anno. Quando, attorno al 1927, il ramo sansepolcrino dei Buitoni si trova in cattive acque finanziarie, è giocoforza rivolgersi ai parenti che dirigono l’azienda di Perugia, cioè a Giovanni Buitoni, chiedendogli di intervenire. Divenuto presidente di quello che, dal 1928, prende il nome di gruppo Buitoni-Perugina, l’intraprendente Giovanni (classe 1891) cavalca una serie memorabile di successi che portano l’azienda fra le primissime nel settore alimentare nazionale. Lui è geniale e anche un po’ spregiudicato (si vedano le audaci e aggressive manovre commercial-pubblicitarie con cui mette nell’angolo ogni aspirante concorrente), è liberale e non troppo in sintonia col regime (anche se, dal 1930 al ’34, sarà podestà di Perugia), è affascinato dalle imprese insolite e dai mercati esteri ancora da scoprire. Nel 1934, segue personalmente la costruzione del primo stabilimento fuori Italia, a Saint Mur, in Francia.
Tre anni dopo, decide di montare un grande padiglione all’Expo di Parigi: propone gli spaghetti al pomodoro e deve intervenire la Gendarmerie per arginare l’assalto dei francesi entusiasti (sarà, anzi, uno dei primi episodi che incrinano la tradizionale diffidenza transalpina verso i “macaroni” italiani...). Ancor più precursore sarà quando, nel 1940, apre uno “Spaghetti bar” a New York. La guerra gli metterà degli insuperabili bastoni fra le ruote: scoppiato il conflitto il bar deve chiudere, lui non vuole tornare in Italia ma negli Stati Uniti deve nascondersi per sei mesi a causa della carica fascista ricoperta a Perugia. Quando torna di qua dall’Atlantico trova lo stabilimento distrutto dai tedeschi in ritirata. “L’ingegnere”, come viene chiamato, non si perde d’animo e riparte presto con nuovi progetti. E con altre campagne pubblicitarie che restano nella storia del costume: dal Carosello con Mina che canta Tintarella di luna agli spot con Diego Abatantuono, senza trascurare il colpaccio della sponsorizzazione per il Napoli al tempo di Maradona. Con gli anni Settanta vengono tempi più cupi. La dinastia si frammenta. Il gruppo passa di mano finché, nel 1988, Nestlé lo rileva dalla Cir di Carlo De Benedetti. La multinazionale mantiene l’identità italiana dei prodotti. Progressivamente viene abbandonato il terreno delle paste secche (cedendolo a un imprenditore italo-svizzero che ottiene anche la concessione del marchio) puntando piuttosto a quelle fresche ripiene, prodotte nello stabilimento di Moretta insieme ai sughi e ai surgelati, come le pizze Bella Napoli, realizzate a Benevento. E nel solco della tradizione culinaria del marchio, mantenendo, peraltro, con l’attenzione alla ricerca e alla sperimentazione, quella vocazione “nutrizionista” che fin dalle origini era stata tipica di Buitoni.
6- continua
31 luglio 2015
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Enrico Mannucci